L’eliminazione delle barriere architettoniche è possibile anche quando si deve intervenire in un edificio storico?
In edilizia sono definiti «barriere architettoniche» tutti quegli impedimenti di natura fisica o materiale (elementi costruttivi o anche semplici modalità costruttive) che in qualunque modo o misura limitano, impediscono o rendono più difficile alle persone affette da limitata capacità motoria o sensoriale l’uso di un ambiente costruito.
Interessati ad un mondo senza barriere architettoniche sono, in realtà, non soltanto i soggetti disabili o meno abili per patologia, età o eventi occasionali; ma anche, in generale, tutti coloro i quali ambiscano a un mondo meno cattivo, in cui le persone svantaggiate non vedano sommarsi limitazione a limitazione e possano ambire malgrado la menomazione ad una vita dignitosa.
In tale prospettiva, giustamente, la Corte costituzionale ha ricondotto l’eliminazione delle barriere architettoniche in edilizia al tema della salvaguardia dei diritti fondamentali della persona, in particolare del diritto alla salute «intesa quest’ultima nel significato, proprio dell’art. 32 della Costituzione, comprensivo anche della salute psichica la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute fisica.» (sentenza n° 167/1999).
La disciplina statale si è interessata dell’eliminazione delle barriere architettoniche nell’edilizia privata e nell’edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata.
La L. 13/1989, da un lato, ha stabilito – stabilisce tuttora – che i nuovi edifici devono “nascere” senza barriere architettoniche: esse vanno proprio eliminate sin dalla progettazione; dall’altro ha incentivato in vario modo (lo fa tuttora) gli interventi volti all’eliminazione di quelle presenti negli edifici esistenti.
Questa sacrosanta disciplina speciale, la cui attuazione spetta anche alle regioni, che hanno emanato specifiche leggi, può e deve trovare applicazione anche nel caso di edifici assoggettati alla disciplina di tutela del patrimonio storico-artistico (D.Lgs 42/2004).
Come noto, in tale ipotesi tutti gli interventi che comunque modifichino l’immobile tutelato devono ottenere la preventiva approvazione di un’Autorità amministrativa (Ministero, Soprintendenze); quest’ultima è chiamata a valutare la compatibilità delle opere richieste con il valore storico-artistico del bene e ad autorizzare quelle tollerabili (se del caso prescrivendo speciali accortezze), vietando quelle inconciliabili.
Cosa succede se la barriera architettonica da eliminare si trova in un edificio così vincolato? Prevale l’esigenza della persona svantaggiata o l’interesse alla conservazione del bene culturale?
L’ordinamento mira a contemperare i due contrapposti interessi.
La legge del 1989 già citata conferma anzitutto la necessità dell’autorizzazione anche per questi interventi; prescrive, inoltre, un termine perentorio, più breve di quello ordinario, entro cui l’autorità interpellata deve pronunciarsi; assegna infine un significato all’eventuale silenzio protratto oltre detto termine (l’inerzia della pubblica amministrazione equivale, cioè, ad autorizzazione).
Ma potere di autorizzare significa anche potere di non autorizzare.
La regola generale del D.Lgs 42/2004 è questa: qualunque modifica del bene che arrechi pregiudizio all’interesse curato non può essere autorizzata. Se però la modifica deriva dalla necessità di eliminare una barriera architettonica, la regola si fa più rigida: l’autorizzazione, infatti, in tal caso «può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato».
Ad impedire l’intervento, dunque, non può essere un qualunque pregiudizio al valore curato, ma solo un pregiudizio «serio», cioè importante, una grave lesione all’interesse pubblico protetto (si pensi ad un pur giustificabile montascale da installare a fianco di uno scalone di rappresentanza in una villa monumentale). In caso diverso prevale l’interesse all’eliminazione della barriera architettonica.
Aggiunge la legge che nel caso di diniego l’Autorità deve spiegare benissimo perché ritiene che l’intervento proposto pregiudichi gravemente il valore tutelato. Si preoccupa, anzi, di stabilire il contenuto necessario di tale motivazione: l’eventuale diniego di autorizzazione, infatti, dev’essere motivato «con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato».
Come osservato dal Consiglio di Stato (sentenza n° 355/2020) «si è in tal modo introdotto nell’ordinamento un onere di motivazione particolarmente intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico, a sua volta promanante dell’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali».
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